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Il seme e l’albero
Nel viaggio che conduce alla meta naturale dell’uomo, la realizzazione del Sè, ci sono due costanti obiettivi: l’illuminazione vera e propria, quella che anticipa la Liberazione, e le piccole illuminazioni intermedie, ossia piccole liberazioni. Questo concetto viene spesso metaforizzato con una scala, la cui interezza rappresenta l’elevazione del percorso spirituale verso il fine ultimo della vita, mentre i singoli pioli, o gradini, simboleggiano le piccole illuminazioni. Le storielle zen si prefiggono di favorire tali piccole illuminazioni, precursori di quella finale.
Le storielle zen, non vanno paragonate alle brevi storielle, le Chinna Katha, raccontate da Sri Sathya Sai Baba.
In linea generale, le Chinna Katha sono racconti a carattere pedagogico, finalizzate a comprendere un principio morale, etico o interiore attraverso un episodio semplice. Le storielle zen, koan o aneddoti di maestri zen, sono spesso paradossali o aperte, destinate a far superare la logica ordinaria, provocando, di conseguenza, un’intuizione immediata, una piccola illuminazione, o satori. Il significato della storiella in sé non viene esplicitamente espresso.
Sempre il linea generale si potrebbe dire che le prime sono propedeutiche alla condizione richiesta dalle seconde. Le Chinna Katha instradano l’individuo alla riflessione, a renderlo pronto a cogliere quello che ha sempre avuto davanti agli occhi, pur senza rendersene conto, poiché limitato dalla logica mondana. Lo zen tenta di indurre quello che si chiama lo shock illuminativo, puntano a scardinare i concetti e sospendendo il giudizio.
Il maestoso albero, le cui fronde donano frescura e riposo al viandante, nasce da un piccolo seme. Oh uomo, siediti ai piedi dell’albero e realizza il seme!
La prima parte di questo koan descrive un fatto naturale, semplice e incontrovertibile. Il maestoso albero imponente, che offre riparo e conforto, ha un’origine umilissima: un piccolo seme. Chiunque sa che l’albero nasce da un seme. Questa è la logica formale: il velo da squarciare che tutti abbiamo davanti agli occhi.
La seconda parte è l’istruzione, il cuore del koan. Il maestro si rivolge direttamente al discepolo, di riflesso anche a noi, e lo invita ad un’azione paradossale: sedersi sotto l’albero per “realizzare il seme“, non per godere solo della frescura e dell’ombra, ossia i “frutti” dell’albero.
La scena nel suo complesso ci comunica anche qualcos’altro di importante: in entrambi i casi – rappresentati dal viandante, o mondo fenomenico, e dal meditante, o cammino spirituale – si deve essere nei pressi dell’albero, ovvero frequentare il giusto ambiente, o atmosfera, che induca il viandante a diventare meditante, e il meditante a raggiungere lo scopo.
L’albero simboleggia quella zona in cui l’aderenza alla morale, all’etica e ai Valori Umani favoriranno nell’uomo che li addotta a trasmutarsi in un ricercatore e a superare anche tale stadio.
Un altro insegnamento implicito è relativa al culto e alla ritualità. Questi non devono essere considerati il fine, ma solo i mezzi necessari a provocare la trasmutazione, l’avanzamento spirituale. In altri termini, la riduzione degli strati che velano la propria vera natura.
In tutto questo, dove trova posto il Maestro?
Il Maestro non rientra nella scena. Egli è la voce fuori campo. Egli è al di là della mondanità e della strada atta a trascenderla. Egli è il richiamo della Meta. È per tale motivo che non si diventa mai davvero Uno con il Maestro: dopo essersi identificati con Lui, abbandonando l’individualità si è una cosa sola con Lui. L’onda emersa dall’Oceano si riimmerge in esso. L’individualità è pura illusione. Nulla si è davvero mosso. Il seme e l’albero sono mutevoli, quindi apparenti. Nel silenzio interiore, messa da parte la mente, si lascerà affiorare il principio che si cela dietro la loro apparenza.